SPIRITUALITÀ ED ELEMENTI PER UNA TEOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE IN RETE
SPIRITUALITÀ ED ELEMENTI PER UNA TEOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE IN
RETE
Antonio Spadaro S.I.
Internet
fa parte della nostra vita quotidiana. Se fino a qualche tempo fa la Rete era
legata all’immagine di qualcosa di tecnico, che richiedeva competenze specifiche
sofisticate, oggi è un luogo da frequentare per stare in contatto con gli amici
che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare
un viaggio, per condividere interessi e idee. E questo anche in mobilità grazie
a quelli che una volta si chiamavano «cellulari» e che oggi sono veri e propri
computer da tasca.
Una Rete a
portata di mano
Internet
è uno spazio di esperienza che sempre di più sta diventando parte integrante,
in maniera fluida, della vita di ogni giorno. E’ un nuovo contesto
esistenziale, non dunque un «luogo» specifico dentro cui entrare in alcuni
momenti per vivere on line, e da cui
uscire per rientrare nella vita off line.
La Rete, resa così a portata di mano (anche in senso letterale), comincia a
incidere sulla capacità di vivere e pensare. Dal suo influsso dipende in
qualche modo la percezione di noi stessi, degli altri e del mondo che ci
circonda e di quello che ancora non conosciamo.
In
fondo, l’uomo ha sempre cercato di capire la realtà attraverso le tecnologie.
Pensiamo a come la fotografia e il cinema hanno mutato il modo di rappresentare
le cose e gli eventi; l’aereo ci ha fatto comprendere il mondo in maniera
diversa del carro con le ruote; la stampa ci ha fatto comprendere la cultura in
maniera diversa. E così via. La «tecnologia», dunque, non è un insieme di
oggetti moderni e all’avanguardia. Non è neanche, come credono i più scettici, una
forma di vivere l’illusione del dominio sulle forze della natura in vista di
una vita felice. Sarebbe riduttivo considerarla solamente frutto di una volontà
di potenza e dominio. Essa, scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, «è un fatto profondamente umano, legato
all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma
la signoria dello spirito sulla materia»[1],
e nel contempo si manifestano le aspirazioni dell’uomo e le tensioni dei suo
animo.
L’avvento di internet è stato,
certo, una rivoluzione. Tuttavia è una rivoluzione con salde radici nel
passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune,
ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Pensando a internet occorre non solo immaginare le prospettive di futuro che
offre, ma considerare anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e
alle quali prova a rispondere, cioè: connessione, relazione, comunicazione e
conoscenza[2]. E noi sappiamo bene come
da sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di
comunione due pilastri fondanti del suo essere.
La
domanda a questo punto sorge spontanea: se oggi la rivoluzione digitale
modifica il modo di vivere e pensare, ciò non finirà per riguardare anche, in
qualche modo, la fede? Se la Rete entra nel processo di formazione
dell’identità personale e delle relazioni, non avrà anche un impatto
sull’identità religiosa e spirituale degli uomini del nostro tempo e sulla
stessa coscienza ecclesiale? Benedetto XVI col suo messaggio per la 45a
Giornata delle Comunicazioni Sociali e il discorso alla Plenaria del Pontificio
Consiglio per le Comunicazioni ha indicato una strada in maniera chiara e
decisa. Ecco le sue domande: «quali sfide il cosiddetto “pensiero digitale”
pone alla fede e alla teologia? Quali domande e richieste?».
Internet come «ambiente»
Internet non è un semplice «strumento» di comunicazione che si
può usare o meno, ma un «ambiente» culturale, che determina uno stile di
pensiero, contribuendo a definire anche un modo peculiare di stimolare le
intelligenze e di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il
mondo e di organizzarlo. In questo senso la Rete non è un nuovo «mezzo» di
evangelizzazione, ma innanzitutto un contesto in cui la fede è chiamata a
esprimersi non per una mera «volontà di presenza», ma per una connaturalità del
cristianesimo con la vita degli uomini. La sfida della Chiesa non dev’essere
quella del modo di «usare» bene la Rete, come spesso si crede, ma come «vivere»
bene al tempo della Rete. Internet è una realtà destinata ad essere sempre più
trasparente e integrata rispetto alla vita, diciamo così, «reale». Questa è la
vera sfida: imparare ad essere wired, connessi, in maniera fluida,
naturale, etica e perfino spirituale; a vivere la Rete come uno degli ambienti
di vita.
È evidente, dunque, come
internet con tutte le sue innovazioni dalle radici antiche ponga alla Chiesa
una serie di interrogativi rilevanti di ordine educativo e pastorale. Tuttavia
vi sono alcuni punti critici che riguardano la stessa comprensione della fede e
della Chiesa. Proverò a individuarne alcuni per avviare una discussione alla
luce di evidenti incompatibilità come anche di palesi connaturalità.
Come cambia la
ricerca di Dio
La prima questione che vorrei sollevare è di ordine
antropologico. La «navigazione» sul web
è una via ormai ordinaria per la conoscenza. Oggi accade sempre più spesso che,
quando si ha la necessità di una informazione, si interroghi la Rete per avere
la risposta da un motore di ricerca come Google, Bing o altri
ancora. Internet sembra essere il luogo delle risposte. Esse però raramente
sono univoche: la risposta è un insieme di link che rinviano a testi,
immagini e video. Ogni ricerca può implicare una esplorazione di territori
differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Quale fede troviamo in questo spazio antropologico che chiamiamo web?
Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure
anche religion, spirituality, otteniamo liste di centinaia di
milioni di pagine. Nella Rete si avverte una crescita di bisogno religioso che
la «tradizione» sembra faccia fatica a soddisfare. L’uomo alla ricerca di Dio
oggi avvia una navigazione. Quali sono le conseguenze? Si può cadere
nell’illusione che il sacro o il religioso siano a portata di mouse. La
Rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere
facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket
del religioso. Ci si illude dunque che il sacro resti «a disposizione» di un
«consumatore» nel momento del bisogno. Il vangelo appare solo come una notizia
fra molte altre.
Il Vangelo, però, «non è un’informazione fra le altre —
affermava nel 2002 l’allora card. Ratzinger —, una riga sulla tavola accanto ad
altre», ma è «la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte
informazioni che ci sommergono giorno dopo giorno». Continuava l’attuale
Pontefice: «Se il Vangelo appare soltanto come una notizia fra molte, può forse
essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la
comunicazione, che noi chiamiamo Vangelo, a far capire che essa è appunto una forma
totalmente altra di informazione – nel nostro uso linguistico, piuttosto una
“performazione”, un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento
dell’esistenza può trovare il suo giusto tono?»[3].
La sfida che abbiamo davanti allora è seria, perché segna la
demarcazione tra la fede come «merce» da vendere in maniera seduttiva e la fede
come atto dell’intelligenza dell’uomo che, mosso da Dio, dà a Lui liberamente
il proprio assenso. È dunque necessario oggi considerare che ci sono realtà
capaci di sfuggire sempre e comunque alla logica del «motore di ricerca» e che
la «googlizzazione» della fede è impossibile.
Di
recente Google ha introdotto una
nuova funzionalità chiamata Instant
la quale permette di ottenere i risultati della ricerca già nel momento in cui
la ricerca viene effettuata. Se teniamo abilitata la funzione Google Instant e digitiamo la parola God scopriremo che nel «mercato» delle
risposte Dio non è certo più «l’essere di cui non si può pensare il maggiore»
secondo la definizione di sant’Anselmo. Infatti, appena vengono digitate le
lettere «g», «o» e «d», i suggerimenti automatici in lingua inglese sono in
ordine: «gods of Metal», e poi «god of war», «godot» e «godzilla», e cioè,
rispettivamente: un videogioco, un festival di musica metal, la più famosa opera teatrale di Samuel Beckett e un mostro
del cinema giapponese. Dio in quanto tale (God)
non rientra nel campo delle risposte possibili. La ricerca di Dio al tempo di Google Instant si è fatta difficile...
Possiamo
confrontare la logica del motore di ricerca istantanea a quella dei motori
«semantici» e alla loro differente logica di funzionamento, fondata sul
riconoscimento di una domanda precisa che va posta bene. Un esempio è quello
offerto da Wolfram|Alpha. Visto che,
al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare la
risposta alla domanda Does God exist? (Dio
esiste?): «Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non
importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta
semplice a questa domanda».
Lì dove Google va a colpo sicuro fornendo
centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro. Qual è la differenza? Google è un motore sintattico e si
preoccupa unicamente di «censire» le parole che sono all’interno di un testo ma
senza in alcun modo tentare di determinare il contesto in cui queste parole
vengono utilizzate. La ricerca semantica tenta di invece di avvicinarsi al modo
di apprendere dell’uomo, cercando di interpretare il significato logico delle
frasi e tentando di carpirne il significato dal contesto. Il modo in cui si
pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta. Ecco, dunque, che
cosa possiamo imparare: anche al tempo della Rete la ricerca di Dio deve
nascere sempre da un contesto preciso, non dalla capacità di compiere una
ricerca «a caso», ma dalla paziente formulazione di una domanda e dal
riconoscimento di ciò che si desidera veramente.
Si comprende, quindi, come la Rete «sfidi» la fede nella sua
comprensione grazie a una «logica» che sempre di più segna il modo di pensare
degli uomini.
L’uomo religioso al tempo della
Rete
In tale contesto occorre considerare un possibile vero e proprio
cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa. Una volta l’uomo
era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale.
Come l’ago di una bussola, lui sapeva di essere radicalmente attratto verso una
direzione precisa, unica e naturale: il Nord. Se la bussola non indica il Nord
è perché non funziona, e non certo perché non esiste il Nord. Poi l’uomo,
specialmente con la Seconda Guerra Mondiale, ha cominciato ad usare il radar che serve a rilevare e determinare
la posizione di oggetti fissi o mobili. Il radar
va alla ricerca del suo target e implica
una apertura indiscriminata anche al più blando segnale, non l’indicazione di
una direzione precisa. E così anche l’uomo ha cominciato ad andare alla ricerca
di un senso per la vita e anche di un Dio capace di qualche segno di
riconoscimento, che faccia sentire la sua voce. L’espressione di questa logica
è la domanda: «Dio, dove sei?». Da qui anche l’attesa di Godot e tante pagine della grande letteratura del Novecento, ad
esempio. L’uomo era inteso comunque come un «uditore della parola» – per usare
una celebre espressione del teologo Karl Rahner, che implicitamente ha dato
forma teologica alla metafora tecnologica del radar – alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno
profondo. E oggi? Vale ancora questa immagine?
In realtà, sebbene sempre vive e vere, esse reggono meno.
L’immagine che oggi è più presente è quella dell’uomo che si sente smarrito se
il suo cellulare non ha campo o se il suo device
tecnologico (computer, tablet o smartphone) non può accedere a qualche forma di connessione di rete
wireless. Se una volta il radar era alla ricerca di un segnale,
oggi invece siamo noi a cercare un canale di accesso attraverso il quale i dati
possano passare. L’uomo oggi più che cercare segnali, è abituato a cercare di
essere sempre nella possibilità di riceverli senza però necessariamente
cercali. L’estrema conseguenza è la logica introdotta dal sistema push che funziona in maniera opposta a
quello pull. Il primo implica il
fatto che quando un dato è disponibile (una mail,
ad esempio) io lo ricevo in maniera automatica perché tengo aperto un canale di
ricezione. Il secondo sistema implica il fatto che io possa andare a
recuperarlo quando ho voglia di stabilire una connessione.
L’uomo da bussola prima e radar
poi si sta trasformando, dunque, in un decoder,
cioè un sistema di accesso e di decodificazione delle domande sulla base delle
molteplici risposte che lo raggiungono senza che lui si preoccupi di andare a
cercarle. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la
cosiddetta information overload. Il
problema oggi non è reperire il messaggio di senso ma decodificarlo,
riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo. E può essere
«nascosto» dovunque. In un mondo che offre risposte a domande che ancora non
sono state formulate, la domanda religiosa in realtà si sta trasformando in un
confronto tra risposte plausibili e soggettivamente significative. Prima
vengono le risposte, ed è da queste che l’uomo a chiamato a riconoscere le sue
domande più radicali e autentiche.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza
del vocabolario cristiano: il discernimento. La risposta è il luogo di
emersione della domanda. Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al
formatore, all’educatore, dedurre e distinguere le domande religiose vere dalle
risposte che lui si vede offrire continuamente. E’ un lavoro complesso, che
richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
La Chiesa: fili di rete o
tralci di vite?
La secondaa questione che vorrei sollevare è di ordine più
prettamente ecclesiologico. La Rete è oggi sempre di più luogo di networks e di communities. E’
possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di Rete? Una «Chiesa di
Rete» in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale
e di concreto riferimento reale di vita. Pensiamo alle «chiese» generate dai
telepredicatori, che producono una pratica religiosa individuale, che conferma
l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo
della società dei consumi capitalistica. Non è dovuto al caso il grande successo
dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione
storica, comunitaria e sacramentale (tradizione, testimonianza, celebrazione…),
tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza
individuale e spesso di ispirazione new
age.
Queste tensioni, com’è ovvio, hanno una ricaduta sul significato
dell’«appartenenza» ecclesiale. Essa rischia di essere considerata il frutto di
un «consenso» e dunque «prodotto» della comunicazione. In tale contesto i passi
dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di «procedura
di accesso» (login) all’informazione,
forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida
disconnessione (logoff). Il
radicamento in una comunità si risolverebbe in una sorta di «installazione» (set up) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente
anche «disinstallare» (uninstall).
D’altra parte la Rete, invece, è destinata sempre di più ad
essere non un mondo parallelo e distinto rispetto alla realtà di tutti i
giorni, quella dei contatti diretti: le due dimensioni, quella on line e quella off line, sono chiamate ad armonizzarsi e ad integrarsi quanto più
è possibile in una vita di relazioni piene e sincere. La Chiesa in se stessa è
sempre più compresa (e risulta comprensibile) in termini di network. La Rete dunque pone domande che
riguardano la mentalità e il modello con cui può essere compresa la Chiesa nel
suo essere «comunità» e nel suo sviluppo. La Lumen gentium al n. 6,
parlando dell’intima natura della Chiesa, afferma che essa si fa conoscere
attraverso «immagini varie». Nel passato, oltre a quelle bibliche, sono state
usate anche immagini di altro genere per «significare» la Chiesa; ad esempio,
le metafore navali e di navigazione[4]. Alcune immagini infatti
possono anche essere «modelli» ecclesiologici. Per «modello» si intende
un’immagine impiegata in modo riflesso e critico per approfondire la
comprensione della realtà[5]. La domanda a questo punto
è se oggi non si ponga la necessità di confrontarsi seriamente con il modello
della «Rete» e con ciò che da essa deriva a livello di comprensione
ecclesiologica.
Nel suo Thy Kingdom
Connected, Dwight J. Friesen, professore associato di Teologia pratica
presso la Mars Hill Graduate School
di Seattle, immagina «il regno di Dio nei termini di un essere relazionalmente
connessi con Dio, gli uni gli altri, e con tutta la creazione»[6]. In
questa visione certo possiamo ritrovare quella del Compendio del Catechismo
della Chiesa Cattolica che afferma la sacramentalità della Chiesa nel suo
essere «strumento della riconciliazione e della comunione di tutta l’umanità
con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»[7].
Il pensiero di Friesen esprime una visione della Chiesa della cosiddetta emerging church, un ampio movimento
complesso e fluido dell’area evangelico-carismatica, che intende reimpiantare
la fede cristiana nel nuovo contesto post-cristiano. Ne risulta una Chiesa
«organica, interconnessa, decentralizzata, costruita dal basso, flessibile e
sempre in evoluzione»[8].
In questa immagine sembra però che la natura e il mistero della
Chiesa si diluiscano nell’essere uno «spazio connettivo», un hub di connessioni, che supporta
un’«autorità connettiva»[9] il
cui scopo consiste sostanzialmente nel connettere le persone. L’idea di Chiesa
che emerge da questa visione è quella di una Networked Church, che ripensa e ricomprende le strutture delle
chiese locali. Lo scopo primario della Chiesa sarebbe quello di creare e
sviluppare un ambiente connettivo dove è facile che la gente si raggruppi nel
nome di Cristo.
La Chiesa in questa visione dunque sarebbe una struttura di
supporto dove la gente possa «raggrupparsi». La Chiesa non è un luogo di
riferimento, non è un faro che in sé emette luce, ma una struttura di supporto
per far crescere il regno di Dio. Non si escludono in tale prospettiva
«pastori, capi, vescovi, un pontefice, o altro»[10],
ma li si intende come network ecologist,
persone che hanno l’incarico di tenere in funzione la rete di connessioni[11].
Questa visione offre un’idea della comunità cristiana che fa proprie le
caratteristiche di una comunità virtuale intesa come leggera, senza vincoli
storici e geografici, fluida. Certo una tale orizzontalità aiuta molto a
comprendere la missione della Chiesa, che è inviata a evangelizzare. In effetti
tutta l’impostazione della emerging
ecclesiology è fortemente missionaria. In questo senso valorizza molto la
capacità connettiva e di testimonianza. D’altra parte è a forte rischio la
comprensione della Chiesa come «corpo mistico», che sembra diluirsi in una
sorta di piattaforma di connessioni.
Ora, certamente la relazionalità della Rete funziona se i
collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un
collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione
sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una
medesima linfa non è distante dall’immagine di internet, tutto sommato.
Ciò che da un punto di vista cattolico però deve rimanere chiaro
è che la Chiesa non può essere compresa come una sorta di grande Rete di
relazioni immanenti e orizzontali, ma ha sempre un principio e un fondamento
«esterno». La «con-vocazione» ad essere parte del Corpo di Cristo che è la
Chiesa non è dunque riducibile al modello sociologico dell’aggregazione. Essa è
«il popolo che Dio convoca e raduna da tutti i confini della terra, per
costruire l’assemblea di quanti, per la fede e il battesimo, diventano figli di
Dio, membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo»[12].
L’appartenenza alla Chiesa è data da questo fondamento esterno perché è Cristo
che, per mezzo dello Spirito, unisce a sé intimamente i suoi fedeli; è lui che
la unisce a sé in un’Alleanza eterna, rendendola santa (Ef 5, 26)[13].
La Rete può essere
compresa come una sorta di grande testo autoreferenziale e, dunque, puramente
«orizzontale»: essa non ha radici né rami e dunque rappresenta un modello di
struttura chiusa in se stessa. Se le relazioni in Rete dipendono dalla presenza
e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione, la comunione
ecclesiale è invece radicalmente un «dono» dello Spirito. L’agire comunicativo
della Chiesa ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine. Su questo
«dono» si fonda la sua intima natura.
La Grazia: «peer-to-peer» o
«face-to-face»?
Si comprende bene che uno dei punti critici della nostra
riflessione che stiamo facendo è in realtà il concetto di «dono», di un
fondamento esterno. La Rete per la Chiesa è sempre e comunque «bucata»: la
Rivelazione è un dono indeducibile, e l’agire ecclesiale ha in questo dono il
suo fondamento e la sua origine. Ma è il concetto stesso di «dono» che oggi sta
mutando.
La Rete è il luogo del dono, infatti. Concetti come file
sharing, free software, open source, creative commons,
user generated content, social network hanno tutti al loro interno,
anche se in maniera differente, il concetto di «dono», di abbattimento
dell’idea di «profitto». A ben guardare, però, più che di «dono» si tratta di uno
«scambio» libero reso possibile e significativo grazie a forme di reciprocità
che risultano «proficue» per coloro che entrano in questa logica di scambio.
Comunque c’è una idea «economica» che ha in mente il concetto di «mercato».
In realtà il nodo consiste nel fatto che la logica del dono in
Rete sembra sostanzialmente essere legata a ciò che in slang viene
chiamato freebie, cioè qualcosa che non ha prezzo nel senso che non
costa nulla. Essa si fonda sulla domanda implicita: «quanto costa?», e l’ottica
è tutta spostata su chi «prende» (e non «riceve», dunque). Il freebie è
ciò che si può prendere liberamente. La gratia gratis data invece non si
«prende» ma si «riceve», ed entra sempre in un rapporto al di fuori del quale
non si comprende. La Grazia non è un freebie, anzi, per citare il
teologo Dietrich Bonhoeffer, è «a caro prezzo». Nello stesso tempo la Grazia si
comunica attraverso mediazioni incarnate.
La logica della Grazia crea «legami» face-to-face, cioè
del «faccia a faccia», come è tipico della logica del dono, cosa che invece è
estranea di per sé alla logica del peer-to-peer, cioè del «nodo a nodo»,
che in se stessa è una logica di connessione e di scambio, non di comunione. E
un «volto» non è mai riducibile a semplice «nodo». Ecco dunque un compito
specifico del cristiano in Rete: farla maturare da luogo di «connessione» a
luogo di «comunione». Il rischio di questi tempi è proprio quello di confondere
questi due termini. La connessione di per sé non basta a fare della Rete un luogo
di condivisione pienamente umana. Lavorare in vista di tale condivisione è
compito specifico del cristiano. D’altra parte, se il «cuore umano anela a un
mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi», come ha scritto
Benedetto XVI[14],
allora la Rete può essere davvero un ambiente privilegiato in cui questa
esigenza profondamente umana possa prendere forma.
L’autorità tra emittenza e
testimonianza
In questa linea di riflessione si colloca il problema
dell’autorità nella Chiesa e delle mediazioni ecclesiali in senso più generale.
La Rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti
reticolari, orizzontali e non gerarchici. La Chiesa vive di un’altra logica, di
un messaggio donato, cioè ricevuto, che «buca» la dimensione orizzontale. Non
solo: una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza
autorevole, di tradizione, di Magistero: sono tutte parole queste che sembrano
fare a pugni con una logica di Rete. In fondo potremmo dire che sembra
prevalere nel web la logica
dell’algoritmo Page Rank di Google. Sebbene in fase di
superamento, esso ancora oggi determina per molti l’accesso alla conoscenza. Si
fonda sulla popolarità: in Google è più accessibile ciò che è
maggiormente «linkato», quindi le pagine web
sulle quali c’è più accordo. Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze
sono, dunque, modi concordati di vedere le cose. Questa a molti sembra la
logica migliore per affrontare la complessità. Ma la Chiesa non può sposare
tale logica, che, nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa
manipolare l’opinione pubblica. L’autorità non è sparita in Rete e, anzi,
rischia di essere ancora più occulta. E infatti la ricerca oggi si sta muovendo
nella direzione di trovare altre metriche per i motori di ricerca, che siano
più di «qualità» che di «popolarità».
Tuttavia, nonostante i problemi qui accennati, esiste anche un
aspetto importante sul quale riflettere, e che appare oggi di grande
importanza: la società digitale non è pensabile e comprensibile solamente attraverso
i contenuti trasmessi, ma soprattutto attraverso le relazioni: lo scambio dei
contenuti oggi, al tempo delle reti sociali, avviene all’interno delle
relazioni. È necessario dunque non confondere «nuova complessità» con
«disordine» e «aggregazione spontanea» con «anarchia». La Chiesa è chiamata ad
approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto
fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale. Appare chiaro che la carta da
giocare è la testimonianza autorevole.
La logica dei social
networks ci fa comprendere meglio di prima che il contenuto condiviso è
sempre strettamente legato alla persona che lo offre. Non c’è, infatti, in
queste reti nessuna informazione «neutra»: l’uomo è sempre implicato
direttamente in ciò che comunica. Ciascuno è chiamato ad assumersi le proprie
responsabilità e il proprio compito nella conoscenza. In questo senso il
cristiano che vive immerso nelle reti sociali è chiamato a un’autenticità di
vita molto impegnativa: essa tocca direttamente il valore della sua capacità di
comunicazione. Infatti, ha scritto Benedetto XVI nel suo recente Messaggio per
la 45° Giornata delel Comunicazioni Sociali, «quando le persone si scambiano
informazioni, stanno già condividendo se stesse, la loro visione del mondo, le
loro speranze, i loro ideali». La tecnologia dell’informazione, contribuendo a
creare una rete di connessioni, dunque sembra legare più strettamente amicizia
e conoscenza, spingendo gli uomini a farsi «testimoni» di ciò su cui fondano la
propria esistenza.
Se una volta il testimonial
era una figura autorevole speciale, oggi tutti, a loro modo, sono
sollecitati a diventarlo. Si prefigura, quindi, un rinnovato impulso al
«misterioso incontro tra le possibilità tecnologiche dei linguaggi della
comunicazione e l’apertura dello spirito all’iniziativa luminosa del Signore
nei suoi testimoni»[15]. Un
annuncio del Vangelo che non passi per l’autenticità di una vita quotidiana
personale condivisa resterebbe, oggi più che mai, un flatus vocis, un messaggio espresso in un codice comprensibile
forse con la mente, ma non col cuore. La fede quindi non solo si «trasmette»,
ma soprattutto può essere suscitata nell’incontro personale, nelle relazioni
autentiche
La Chiesa in Rete è chiamata dunque non solamente a una
«emittenza» di contenuti, ma soprattutto a una «testimonianza» in un contesto
di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e
persone di ogni cultura. L’autorità oggi si gioca molto sul piano della
testimonianza autorevole che non scinde il messaggio dalle relazioni «virtuose»
che esso è in grado di creare.
Come pensare la Rete
teologicamente?
La Rete, come abbiamo visto fino a questo momento, pone sfide
davvero significative alla comprensione della fede cristiana. La cultura
digitale ha la pretesa di rendere l’essere umano più aperto alla conoscenza e
alle relazioni. Fin qui abbiamo identificato alcuni dei tanti nodi critici che
questa cultura pone alla vita di fede e alla Chiesa.
Forse dunque
è giunto il momento di considerare l’intelligenza
della fede al tempo della Rete, cioè la riflessione sulla pensabilità della
fede alla luce della logica della Rete. Si tratta della riflessione che nasce
dalla domanda su come la logica della Rete, con le sue potenti metafore che
lavorano sull’immaginario, oltre che sull’intelligenza, possa modellare la
comprensione della ricerca di Dio, il modo di comprendere la Chiesa e la
comunione ecclesiale, la teologia della Grazia e così via. La riflessione è
quanto mai importante perché risulta facile constatare come sempre di più
internet contribuisca a costruire l’identità religiosa delle persone. E se
questo è vero in generale, lo sarà sempre di più per i cosiddetti «nativi
digitali». Fides quaerens intellectum
e questo anche nel nostro tempo in cui la logica della Rete segna la nostra
intelligenza della realtà, il nostro modo di pensare, conoscere, comunicare,
vivere.
***
L’immagine
che forse rende meglio il ruolo e la pretesa del cristianesimo nei confronti
della cultura digitale è quella dell’«intagliatore di sicomori» mutuata dal
profeta Amos (7, 14) e interpretata
da san Basilio. L’allora card. Ratzinger in un suo discorso a un convegno dal
titolo Parabole mediatiche[16]
usò questa fortunata immagine per dire che il cristianesimo è come un taglio su
un fico. Il sicomoro è un albero che produce molti frutti che restano senza
gusto, insipidi, se non li si incide facendone uscire il succo. I frutti, i
fichi, dunque, rappresentano per Basilio la cultura del suo tempo. Il Logos cristiano è un taglio che permette
la maturazione della cultura. E il taglio richiede saggezza perché va fatto
bene e al momento giusto. La cultura digitale è abbondante di frutti da
intagliare e il cristiano è chiamato a compiere quest’opera di mediazione tra
il Logos e la cultura digitale. E il
compito non è esente da difficoltà, ma appare oggi più che mai esigente. In
particolare è necessario cominciare a pensare la Rete teologicamente, ma anche
la teologia nella logica della Rete.
[1] BENEDETTO XVI, Caritas in
Veritate, n. 69.
[2] Cfr A. SPADARO, Web 2.0. Reti di
relazione, Milano, Edizioni Paoline, 2010.
[3] L’intervento
aveva il titolo «Comunicazione e cultura, nuovi percorsi di evangelizzazione
nel Terzo Millennio» (9 novembre 2002). Lo si può leggere in
http://www.internetica.it/comunicazioni_Ratzinger.htm
[4] Cfr H. RAHNER,
L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Roma, Ed. Paoline, 1971.
[5] Cfr A. DULLES, Models of the
Church, Garden City (NY), Image Books, 1987.
[6] D. J.
FRIESEN, Thy Kingdom Connected. What the
Church Can Learn from Facebook, the Internet, and Other Networks, Grand
Rapids (MI), Baker Books, 2009, 31.
[7] Catechismo della Chiesa
Cattolica. Compendio n. 152.
[8] K. BREWIN,
Sign of Emergence. A vision for Church
That Is Organic, Networked, Decentralized, Bottom-Up, Communal, Flexible,
Always Evolving, Gran Rapids, BakerBooks, 2007.
[10] Ivi, 114.
[11] Cfr P. LÈVY, Il virtuale,
Milano, Raffaello Cortina, 1997, 10.
[12] Catechismo della Chiesa
Cattolica. Compendio n. 147.
[13] Ivi, nn. 156 e 158.
[14] Messaggio per la Giornata delle
Comunicazioni Sociali del 2009.
[15] GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la XXIII Giornata Mondiale delle
Comunicazioni Sociali, cit.
[16] Parabole mediatiche è il
titolo di un Convegno nazionale che fu organizzato dalla Conferenza Episcopale
Italiana dal 7 al 9 novembre 2002. Il discorso fu pronunciato durante la
sessione finale.
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